La mostrificazione che mi riguarda

“Se anche una volta hai sentito
quella maledetta voglia di sopraffazione
nei confronti di una donna,
vuol dire che la violenza ce l’hai dentro
e l’unico modo per salvarsi è riconoscerla.
Mica è facile: il patriarcato ce lo abbiamo dentro tutti,
sradicarlo è difficilissimo, fa male”.
(Michele)

Io non ho scritto niente per il 25 di novembre, e non ho preso la parola durante il Consiglio Comunale dedicato, che pure ce n’era da dire, e un bel po’ perchè c’è solo una parte che definisce il femminismo “bieco”. Non ho condiviso niente sui social e non ho partecipato ad alcuna azione pubblica collettiva contro la violenza sulle donne come invece ho fatto per molti anni di seguito, perchè Giulia Cecchettin era appena stata uccisa e non ce la facevo.

Su questo piccolo blog l’hashtag femminismo è quello che rimanda a più articoli, eppure anche dopo mesi faccio una fatica boia a scriverne, e mi viene da piangere tutte le volte che risento la voce del papà di Giulia che la saluta.

Adesso però vorrei scrivere che dopo il femminicidio di Giulia il femminismo non esiste più, perchè esistono i femminismi. Non voglio dire che ci sono arrivato adesso, ho per esempio avuto la fortuna di chiacchierare con Lorenzo Gasparrini giusto qualche mese fa, ma mai come dopo aver visto le reazioni dei maschi all’omicidio di Giulia io credo serva sottolineare che questa battaglia va combattuta insieme. Altrimenti non se ne uscirà mai e ancora una volta la violenza dei maschi contro le donne, che nel frattempo non si è fermata, per la cronaca, sarà una ricorrenza, non un problema da affrontare. Una cosa da fare perchè si deve e non la manifestazione più spaventosa di un clima che insiste nel considerare le donne tutt’al più delle indossa bikini.

Ora è chiaro che le discriminazioni, le sottomissioni di un gruppo da parte di un altro gruppo in posizione di potere non hanno un genere ed evidentemente possono funzionare in entrambi i sensi. Può succedere, è successo, ma è accaduto così raramente che si può parlare di travi e pagliuzze. Per questo maschilismo e femminismo non sono antinomici.

Perchè le donne, tutte le donne devono fare i conti con la fatica e la sofferenza di vivere in un contesto sociale, anche il meno discriminatorio, che affida loro ruoli tutt’al più secondari. O che pretende che siano dei finti maschi. E i maschi, tutti i maschi buoni devono riconoscere il loro ruolo nell’oppressione, che non vuol dire sentirsi in colpa, ma responsabili, e quindi attivarsi perchè quel contesto socio culturale cambi radicalmente. Il ruolo dei maschi non è il ruolo del maschio.  

Io per esempio sto educando i miei figli a non badare al colore della pelle, ma non posso ignorare le conseguenze del ruolo storico del gruppo di potere bianco nei confronti dei neri.

Lo chiamiamo patriarcato, ma è il nostro mondo, quella struttura sociale simbolica (cioè un ordine sociale sorretto dalla simbologia) evidente ad esempio nella scelta del cognome, che è quello del padre, o nel fatto che il prevalere della forza su altre caratteristiche sia nei maschi tollerato se non auspicato. Non sta solo in Italia e non è definibile nella storia, perchè c’è stata quasi sempre.

I femminismi hanno dimostrato in dozzine di studi che esiste un collegamento diretto tra il modo in cui le donne sono raffigurate in questa struttura sociale, manco fossero pezzi di design vagamente erotizzante, e la violenza che subiscono, poi. Perchè solo se la donna è un oggetto allora posso farle violenza, posso considerarla una proprietà.  Quando si parla di cultura dello stupro ci si riferisce a questo link tra l’atto dello stupro, e il contesto che ne è la premessa.

Ho scritto maschi buoni per lo stesso motivo per cui insisto nel parlare di femminismi, e non di femminismo. Le dinamiche di sfruttamento possono essere abbattute solo se la chiamata alla responsabilità è collettiva, solo se tutti i buoni e le buone si alleano contro i malvagie e le malvagie.
Il femminicidio è un crimine agito contro una persone considerata inferiore o debole. È un gesto gerarchico, di estremo comando.  Non è un raptus, è un lucido strumento per disciplinare.  So che suona paradossale, ma la conseguenza di un sacco di gesti che consideriamo innocui, come potrebbe essere la differenza salariale, la disparità di trattamento e di responsabilità e l’incapacità di adeguare il ritmo del lavoro a quello differente di una donna.

Questa cosa ha un costo, questo educare i maschi ad essere, o comunque ad ambire ad essere, attivi collaborazionisti di questa brodaglia dell’uomo bauscia e della donna svenevole è stata studiata dalle economiste che hanno calcolato quanto ci costa la cultura della virilità e della sopraffazione. Sono 99 miliardi di euro all’anno, pari al 5% del Pil.

La violenza non è una caratteristica innata del maschio, vendicarsi contro tutti i maschi è una scemenza, ma tutti i maschi, single, padri, compagni di vita, giovani e vecchi sono parte di quella cultura dello spogliatoio in cui la sopraffazione è normale. E spesso anche nella categoria dei maschi si stratificano debolezze e sopraffazioni. I bimbi ad esempio ne sono vittime.

Io sono un maschio, non l’ho scelto, mi piace esserlo, e lo sento come un bisogno questo di raccontare ai miei figli che si può stare al mondo con gentilezza, senza rabbia, rispettando tutti i pronomi, ma per davvero non adottando una moda linguistica, perchè come diceva il tale “siamo definiti soprattutto dalle nostre azioni, non solo dalle nostre parole”. 

Autore: marcogallicani

www.gallicani.it

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