Della Shoah e degli altri disastri

 

«Io credo soltanto che tra il male e il beneè più forte il bene»

(Lorenzo Cherubini 1994)

Sta nell’ordine delle cose di queste ricorrenze che ogni anno si cerchi una chiave di lettura, possibilmente originale, per dare significato allo sforzo di chi ci dedica anche solo un attimo d’attenzione, in Municipio o in piazza. Vale di più per chi, come me, è al 9° anno di consigliatura e vive con terrore l’idea che si possa dire che questa “l’aveva già detta” (e molte le ho effettivamente già dette). Che è poi un corollario del terrore più grossolano e meno riparabile del “questa l’ha già detta tiziocaio”…

In ogni caso dell’uso distorto delle ricorrenze denunciato più volte dagli storici ho già detto davvero l’anno scorso, e quindi non ci torno, nonostante ancora ce ne sarebbe bisogno.
Quest’anno la bolla (la mia, sui social) ha deciso di portare sotto i miei occhi moltissimi paralleli tra la guerra nella striscia di Gaza e i drammi del 2° conflitto mondiale. A me, sin dal primo pezzo che ho letto, è sembrato una specie di anacronismo stonato e vorrei spiegare perchè la Shoa è un unicum, secondo me.

Il contesto è il medesimo dell’anno scorso (e ridaje): al netto delle strumentalizzazione evidenti, della banalizzazione del dibattito pubblico politico che sta travolgendo la giornata della memoria e quella del ricordo, vissute, sai mai perchè, in antitesi, ecco al netto di tutto questo va ricordato che le ricorrenze non sono state inventate a mo’ di risarcimento.
Cioè non è che se si celebra la Shoah lo si fa perchè così al popolo ebraico gli brucia un po’ di meno di essere stati insultati, evitati, espulsi in massa, esodati, derubati, assunti a stereotipo di ogni nefandezza possibile e poi massacrati al punto da essere messi ad esempio vivente di etnia genocidiata.
Una delle cause di questa incomprensione storiografica massiva sta probabilmente nel suo essere stata usata come modello interpretativo, nell’aver usato Auschwitz come grande didascalia del fenomeno (i campi nazisti furono più di 40mila), nell’aver voluto a tutti i costi isolarne le cause e i responsabili in modo da non doverne condividere nemmeno lontanamente le vere origini (spendete 2 ore a guardare Ausmerzen di Marco Paolini, è un consiglio).
Addirittura e credo involontariamente questa cosa è stata aiutata da tutta la produzione culturale (film soprattutto) che ha provato ad introdurre ai disastri del periodo girandoci un po’ intorno, eludendone gli aspetti più crudi; ma se a 7 anni tua madre ti scaraventa giù da un camion che sta rastrellando le famiglie di un intero quartiere e facendo questo ti salva la vita, ma ti condanna anche a non rivederla mai più, questa cosa è lo schifo più schifoso che ti possa venire in mente. No? E come fai a favoleggiarlo, lo schifo assoluto?

Tra l’altro se le ricorrenze fossero un risarcimento io avrei un sacco di giorni da occupare, a cominciare dalla giornata di Ousmane Sylla, che secondo me i suoi di una qualche forma di risarcimento ne avrebbero bisogno, visto che lo abbiamo portato al suicidio dopo averlo rinchiuso in una prigione per non aventi commesso reato per mesi, senza ascoltarne la volontà di essere solo riportato a casa da sua madre (L’Africa mi manca molto e anche mia madre, non deve piangere per me. Pace alla mia anima, che io possa riposare in pace”). Ma ne avrei ben di più di quelli che ci sono in un anno, garantito.

Invece la Shoah e gli eventi della seconda guerra mondiale hanno rappresentato un punto di svolta oggettivo nella storia dell’umanità, interrompendo un’ipotetica linea di sviluppo che credevamo ci stesse portando verso una costante evoluzione verso il meglio, e allo stesso tempo rilanciandola.

Giusto per capire quanto fossimo determinati, come genere umano, a procedere verso il meglio basti ricordare che attorno a metà dell’800 venne inventata la parola ‘altruismo’ (altruisme) dal padre del positivismo, Auguste Comte, a rovesciamento dell’egoismo che da allora non ha mai smesso di essere considerato un riferimento negativo, una brutta cosa.

Ho appena iniziato e già mi fermo per anticipare un disclaimer: l’idea di progresso non accompagna l’umanità da sempre. La concezione della storia dell’antichità infatti era ciclica, intesa come un continuo succedersi di corsi e ricorsi, quella del lungo periodo medievale era dominata dalla Provvidenza divina, mentre le epoche successive vivevano la storia dell’umanità come degenerazione di un preesistente momento epico, spesso definita età dell’oro. Solo la modernità e l’affermarsi del metodo empirico e poi scientifico permettono l’idea che gli esseri umani debbano e possano lavorare consapevolmente per rendere il mondo un posto migliore per se stessi e per le generazioni a venire, e quindi il valore teleologico che l’illuminismo attribuirà alla storia. Fine della premessa.

Quello che è accaduto più o meno a metà del ‘900 è che l’idea del progresso è andata un po’ in crisi; nonostante il contributo della tecnologia infatti l’umanità più che entrare in uno stato veramente umano, sembra sprofondare in un nuovo genere di barbarie nel quale molte delle condizioni considerate obiettivi consolidati subiscono gli scossoni del fallimento. Prima fra tutte la democrazia, ma anche il rapporto con la natura, i diritti del lavoro, l’ordinamento politico, i rapporti tra generazioni, il modello di sviluppo e le relative tensioni geopolitiche.

E però poi è anche accaduto che quel momento in cui sembravamo aver perso la ragione sia stato un generatore di responsabilità condivise come in pochi altri momenti della storia umana.
Di altruismo nel 2 dopoguerra del ‘900 se ne può intravvedere un bel po’: la carta fondamentale dei diritti umani, la convenzione sull’infanzia, le più locali conquiste della sanità pubblica e dei diritti dei lavoratori. E ne ho messe solo 3. Non male come 50ennio, no?!

E poi di nuovo, verso la fine dello scorso secolo ci siamo ricaduti e ora stiamo qui a contare i morti nelle carceri italiane (13 dal 5 al 31 gennaio 2024) oppure quelli in mare (più di 2500).
E a questo giro c’è questa cosa che sembra dare tanto ragione ad Hannah Arendt quando scriveva che “Il suddito ideale del regime totalitario non è il nazista convinto o il comunista convinto, ma l’individuo per il quale la distinzione tra realtà e finzione, tra vero e falso, non esiste più”.

Il guaio di questa cristallizzazione anacronistica della Shoah, pienamente ascrivibile in quel fenomeno che l’accademia chiama Shoah distortion (ha 3 filoni principali: banalizzazione, politicizzazione e negazionismo. L’ultimo è evidentemente il più sfacciato, ma non si creda che la facilità con cui lo si individua ne abbia limitato la diffusione), sta un po’ nel vederla dappertutto, ma in verità nel non vederla mai arrivare. E si, se c’è un parallelo che può funzionare è sulle cause più profonde di quanto accadde a metà del ‘900, e che sembra stiamo sottovalutando ancora una volta quanto male siamo capaci di farci quando abbandoniamo il principio che Hans Jonas recitò così: “Agisci in modo tale che le conseguenze delle tue azioni siano compatibili con la continuazione di vita un’autentica vita sulla terra”.

Lo facciamo con le migrazioni, lo facciamo con la voglia di guerra che si diffonde sempre più in profondità, verso le radici, lo facciamo con la mancanza di distinguere il falso dal vero di cui parlava la Arendt, lo facciamo chiudendoci nel nostro, come fecero in tantissimi, ma per fortuna non tutti.

Autore: marcogallicani

www.gallicani.it

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